
La violenza sulle donne è, prima di tutto, violenza. Bisognerebbe celebrare una giornata contro la violenza e basta. Ma ciò non è ancora possibile, perché sono i dati a spingerci -in modo violento loro stessi- a far luce sulla specificità di questo problema. Ormai, e quest'anno in modo più evidente, è unanime l'accordo sul fatto che bisogna mettere al centro dell'attenzione e della comunicazione la violenza sulle donne come fatto rilevante e legato alla cultura.
Le richieste di aiuto durante il lockdown sono state davvero troppo maggiori rispetto al precedente dato già agghiacciante. Il fatto che la richiesta di aiuto fosse venuta dall'ambiente domestico, ha finalmente dato concretezza alle supposizioni più teoriche sulla provenienza culturale del problema. Per cultura non si vuole intendere maggiore quantità di titoli di studio, di sapere enciclopedico o alta estrazione sociale. Per cultura qui si intende un'educazione tradizionale, una radice comune che si trasmette e tramanda da generazioni e da cui sembra molto difficile affrancarsi.
Il problema della differenza di genere è un problema culturale. Ci viene spiegato, talvolta in modo palese, talaltra subliminale, che l'individuo che nasce femmina deve avere determinate caratteristiche biologiche ma anche comportamentali, così come, diversamente, l'individuo che nasce maschio, ne dovrebbe avere delle altre. E invece, come sostiene Nicla Vassallo, (ma come hanno sostenuto altri filosofi che hanno posto al centro l'individuo anziché il suo genere) quello di “donna” è un concetto costruito, da cui ci si può affrancare, così come ci si può liberare da qualsiasi altra gabbia che utilizzi troppi paletti a chiudere dentro qualcuno che difficilmente vuole restarci se vuole vivere.
“Donna si diventa” -scriveva Simone de Beauvoir – perché alla categoria, con tutte le sue varie declinazioni tradizionali, si viene con forza plasmate e plagiate. Da questa cultura che descrive didascalicamente l'individuo donna con certe caratteristiche specifiche, proviene anche la lingua che nomina e crea la realtà che ci circonda. Come sostiene la sociolinguista Vera Gheno in Femminili singolari, il femminismo è nelle parole (Effequ 2020), “le questioni linguistiche non sono mai velleitarie, perché attraverso la lingua esprimiamo il nostro pensiero, la nostra essenza stessa di esseri umani, ciò che siamo e vogliamo essere. La lingua non è un accessorio dell'umanità, ma il suo centro”. Da qui il saggio su come sia chiaro – da una lettura dei social network – il dominio conservatore del senso comune. Questo si vuole innalzare anche al di sopra delle reali posizioni e decisioni, ben più liberali, dell'Accademia della Crusca sull'eliminazione del sessismo nella lingua italiana. Nel testo si fa anche luce sulle nuove strade percorse e percorribili (ad esempio l'impiego dello schwa) da chi invece ha chiaro il fatto che la lingua è viva e può evolversi, crescere, migliorare nelle sue possibilità di descrizione della realtà, complessa, mista e in movimento così com'è.
Oltre ad affrontare l'argomento del femminile nelle denominazioni professionali, giunge anche a scrivere di violenza non solo grammaticale: “È la galassia del femminicidio, parola che a molti fa storcere il naso, ma che descrive efficacemente un problema culturale che evidentemente abbiamo in Italia. Stando alla definizione dello Zingarelli 2020, femminicidio (prima attestazione 1888) indica uccisione o violenza compiuta nei confronti di una donna, specialmente quando il fatto di essere donna costituisce l'elemento scatenante dell'azione criminosa”. E passa ad analizzare gli articoli in cui viene descritto qualsiasi femminicidio, le parole che attenuano, che sfumano la colpa dell'uccisore. E il fatto che, quando lei stessa, Vera Gheno, scrive di ciò nei social, i commenti che riceve sono per lo più in opposizione alla propria analisi. Quindi sostenitori di una cultura linguistica ancora sessista.
Cultura, tradizione, lingua, sono complici istituzionali della violenza che uccide le individualità nascoste dietro a tutte le etichette che classificano gli esseri umani. Molto di più se costoro sono esseri umani di sesso femminile. E questo ce lo dicono in modo poco filosofico o poetico sia la cronaca che i dati. Sia sul lavoro, sia sulle richieste di aiuto, sia sulle morti. Quando un individuo donna smette di lavorare e resta a casa per accudire un figlio lo fa in parte per istinto, ma molto di più perché coloro che le stanno intorno non hanno il tempo per sviluppare quell'istinto alla cura, e non hanno nemmeno il supporto culturale della società. Anzi, la società e la cultura, le leggi, forniscono loro quell'alibi a stare lontani dalla competenza alla cura. E quando un individuo-mamma cerca di iniziare a coltivare le proprie passioni, ricominciare un lavoro, è purtroppo il bambino a riemetterci il suo tempo e i suoi diritti, quasi mai il genitore di sesso maschile.
La cultura e la tradizione creano alibi a colui che abusa di una donna. Giustificano, con tutti i sottintesi, i non detto ma lasciato intendere, prima le forme psicologiche di violenza, a seguire quelle più fisiche. Nei centri antiviolenza chiamano sopravvissute tutte coloro che hanno chiesto aiuto e rifugio. La parola deve far riflettere non solo le donne che hanno avuto il coraggio di rivolgersi al centro, ma tutti gli individui di tutti i generi (quali essi siano).
La giornata internazionale per l'eliminazione della violenza sulle donne e di genere dunque non è ancora inutile. È anzi necessaria prima di giungere a quella per l'eliminazione della violenza tutta. Lo dice anche l'attrice Carla Signoris mentre dialoga con Nicla Vassallo nel video Il silenzio aiuta il carnefice, mai il torturato. Il video è l'occasione per ricordarci, in questa data, molte cose. Alcune proviamo a scriverle, molte altre verranno in mente a tutti noi leggendo i numerosi post che girano nei social durante queste giornate, oppure assistendo ai dibattiti organizzati per l'occasione, oppure leggendo alcuni dei libri interessanti che si uniscono al coro di donne sempre più unanime e consapevole di anno in anno.
Il 25 novembre ci ricorda che quando qualcuno ci fa sentire inadeguate e non all'altezza delle situazioni anche più banali, anche solo in casa, e lo fa ripetutamente, abbiamo il diritto di sentirci tristi e sopraffatte, e di dirlo. Prima ancora che come donne, innanzitutto come individui. Dirlo è già un atto fuori di noi, un'azione concreta. La rottura di quel silenzio che aiuta il carnefice, appunto. Sin da bambini abbiamo il diritto ad avere una opinione propria, e questo va mantenuto con cura da adulti.
Ci spinge a riflettere sul significato della parola vita, sulla dignità d'essere vissuta legata al concetto di scelta, di desiderio, di progetto. Su tutti i diritti che da essa sono stati formulati e per essa aggiunti, modificati, migliorati.
Il 25 novembre ci ricorda che dovremmo sentirci tutte sorelle, per dare credito ad altre sorelle più grandi che ci hanno suggerito tempo fa di essere solidali tra noi, invece di accusarci a vicenda quando esprimiamo con energia la nostra propria specificità di individuo pensante e attivo.
Che quando ci sembra di essere cadute nel sogno di qualcun altro e non abbiamo più memoria per ritrovare il nostro, potrebbe non essere una semplice sensazione, ma la realtà.
Che quando pur avendo fatto tutto il possibile per sentirci esistere in qualche modo come individui, per esprimere le nostre necessità più fondanti, ci fanno sentire sbagliate e ingombranti, che siamo un'anziana in una RSA, una bimba in un asilo, una mamma, un'operaia, una manager… c'è buona probabilità che qualcuno stia abusando di noi.
Che essendo abituate sin da piccole a supportare i progetti degli altri, durante il tentativo di fuggirne per perseguire i propri, rischiamo di cadere in situazioni e legami analoghi a quelli inibenti e oppressori che ci hanno cresciuto. Si sa che l'allenamento migliora le prestazioni. Ma in questo caso a nostro svantaggio.
Che non è da sole che ci salveremo, perché, con ogni evidenza, sole, in queste situazioni di sopraffazione e abuso, siamo già.
Adelaide Roscini
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