
Bisogna dare atto al teatro Parenti di non essere solo luogo di spettacoli ma anche luogo di incontri e sperimentazioni. Partendo dal pretesto dei cinquant’anni di attività il Parenti lancia un progetto per celebrare con iniziative, serate teatrali, incontri, spettacoli, concerti, mostre e laboratori, la bellezza della vecchiaia, interpretata come saggezza.
Così come ha annunciato la direttrice del teatro, Andreé Ruth Shammah, a inizio serata, l’intenzione è quella di celebrare la vecchiaia perché solo cambiando lo sguardo sull’ultima parte della vita e favorendo l’incontro tra le generazioni si può rinnovare la società. Se questo è il progetto non si poteva inaugurarlo meglio di come è stato fatto, dando spazio al regista Riccardo Pippa e al Teatro dei Gordi, che con la consueta sensibilità hanno portato in scena lo spettacolo Visite.
È un teatro senza parole quello dei Gordi, con un’accentuata attenzione per i gesti, le emozioni, in cui giovani attori che calcano le tavole del palcoscenico recitano con passione lo scorrere del tempo, attraverso gli incontri e gli intrecci di giovani coppie di amici. È un teatro di emozioni che scava nei vissuti dei protagonisti, esplora lo scorrere delle stagioni e dei mutamenti che tempo e vita apportano nel romanzo di ognuno di noi. Sul palco si susseguono momenti di gioia, di entusiasmo, di tristezza, di complicità, analizzati attraverso delicati gesti, attraverso pochi segnali.
Ci sono momenti esaltanti e goliardici, ci sono momenti struggenti, il tutto viene giocato con un pieno dominio del palco. Seguiamo le coppie in tutto il loro ciclo di vita dalla giovinezza, con le gioie della maternità e il dolore per una maternità incompiuta. Ma oltre agli entusiasmi e ai dolori che ognuno di noi attraversa nella propria vita, perché senza dolori non c’è autenticità nelle esistenze, arriviamo anche a seguire i protagonisti nella fase finale del loro percorso. Struggente il racconto ad esempio della coppia di anziani che si accudisce reciprocamente nel momento di andare a letto, con un affetto e una tensione che resiste alle ingiurie del tempo. Seguiamo gli stessi protagonisti anche quando abbandonano la loro casa, e li rivediamo malinconicamente abitare un reparto di lunga degenza, a volte chiamato più caritatevolmente o retoricamente casa di riposo.
Gli attori sanno dare corpo, movenze e sensibilità ai loro personaggi, sia quando sono nel pieno possesso delle loro forze fisiche nella giovinezza ma anche quando sono ormai avviati sul viale del tramonto. Gli attori hanno il pieno possesso dei loro strumenti recitativi, e sono talmente calati nella loro parte, che nel momento in cui utilizzano le maschere confezionate dalla loro brava mascheraia per caratterizzare ancora una volta il passare del tempo, non ci rendiamo conto se chi le indossa sia un attore o un’attrice.
Forse dei tre spettacoli di Riccardo Pippa a cui ho avuto il piacere di assistere questo è il più malinconico. Ma merito del Teatro dei Gordi e di Riccardo Pippa è quello di lasciare una possibilità di speranza all’intreccio narrativo.
Lo spettacolo è tutto giocato sul movimento, sulla recitazione che non diventa mai esercizio di pura mimica o pantomima, ma ricerca di gesti esemplari adatti a simbolizzare e raccontare. Quella di Visite è una narrazione coadiuvata da una scenografia che sa sempre essere essenziale, e che non ruba mai spazio alla recitazione con una ridondanza di arredi o di finzioni sceniche.

A sipario chiuso abbiamo dialogato con il regista Riccardo Pippa.
Perché il titolo Visite?
Alla fine del lavoro sembrava che Visite fosse il titolo più coerente rispetto al racconto, quello che potesse cogliere il più possibile ciò che veniva rappresentato. Le visite sono quelle dei ricordi, degli amici, dei dottori. La parola visita evoca anche un senso di speranza, un ultimo atto di resistenza.
Sul finale c’è un’ultima immagine che per noi è stata poi l’immagine di partenza, quella del presepe. Anche in un approccio laico il presepe enuncia semplicemente la venuta di qualcuno, di un bambino dentro una mangiatoia. Quindi qualcosa di molto fragile.
Lo spettacolo poi si chiude con la speranza, rappresentata dall’arrivo di un’amica anche lei vecchia, fragile, che sembra arriva quasi da un’altra vita. Questi sono un po’ i significati che può avere il titolo rispetto ad alcune cose che si vedono.
Perché questa tensione verso temi forti? Nel vostro primo spettacolo “La morte senza esagerare” il tema era appunto quello della morte, in “Pandora” che è stato prodotto per ultimo il tema era quello dei conflitti del mondo. In visite, che è il secondo spettacolo che avete allestito, il tema è quello della vecchiaia che poi si conclude in un istituto di lunga degenza.
In Pandora ripensandoci il tema più che altro era quello della solitudine. In realtà noi non partiamo mai da un tema. Partiamo dalle immagini. Tendenzialmente partiamo da pezzi di vita. Se penso a Visite la prima immagine è stata proprio quella di una lunga degenza, dove ho fatto delle osservazioni. Dentro questa lungo degenza c’era un presepe sopra una mensola, sopra un termosifone come si fa in casa. L’aveva fatto uno dei degenti. Un’altra immagine era quella di una camera usata come disimpegno durante una festa. Di solito in occasioni come quella una stanza viene usata per mettere i cappotti sul letto. A partire da questa immagine è venuta poi l’idea di rappresentare il corso del tempo, le stagioni della vita con questa camera da letto, come punto di partenza dello sguardo su un’umanità, un gruppo di amici. L’intento non era quello di fare uno spettacolo sulla vecchiaia. Queste sono cose che sono venute fuori strada facendo.
Così come Sulla morte senza esagerare non è stata tanto la voglia di lavorare su un tema, quello della morte. Ma c’è stato un innesco, quasi naïve, quando ho visto uno spettacolo di burattini e ho visto spuntare il burattino che rappresentava la morte. Era uno spettacolo di strada, e quando la gente si fermava, se ad esempio qualcuno tossiva subito il burattino che rappresentava la morte si voltava da quella parte, guardava la persona e la gente rideva. E questo gioco immediato mi faceva pensare “Beh. Proviamo a rappresentare la morte, proviamo a rappresentarla tutta intera, non come un semplice burattino”. È come se gli inneschi non nascessero proprio dai temi, poi è chiaro che ci sono. Ma è come se gli inneschi nascessero proprio da pezzi di vita, dagli innamoramenti, dalle immagini. Ecco noi ci facciamo guidare molto dalle immagini.
Perché lavorate con le maschere?
In questo caso perché volevamo rappresentare proprio lo scorrere del tempo con la vecchiaia rappresentata così come l’hai vista. Per me le maschere non sono una scelta a priori. Si usano se c’è una motivazione drammaturgica. In questo caso servivano a sottolineare un’ultima stagione.
Chi è la vostra mascheraia?
Si chiama Ilaria Ariemme. Per le maschere dei vecchi si è ispirata anche ai volti dei ragazzi. Infatti se si va vicino le maschere, per alcune di loro si può notare una somiglianza con i ragazzi. In realtà le maschere hanno sempre un processo un po’ strano. Perché molto spesso succede che la maschera nasce ma il sesso non lo puoi decidere più di tanto. In alcuni casi abbiamo attribuito il sesso alle maschere quando le abbiamo messe addosso agli attori.
Perché un teatro senza parole? Tutti e tre i vostri spettacoli ne sono privi.
Questa è una bella domanda. C’è un po’ un innamoramento relativo a certe situazioni che vogliamo rappresentare questo anche nello spettacolo Pandora, in cui rappresentiamo dei cessi pubblici dove passano una cinquantina di figure. Sono dei cessi non un salotto o un luogo di discussioni. Già nel prossimo spettacolo penso che ci saranno parecchie parole. Quindi non prenderla come una ricerca programmatica. Detto questo c’è sicuramente la volontà di indagare quelli che sono dei gesti esemplari, che in qualche modo puliscono lo sguardo da quella che può essere una psicologia che viene spesso raccontata sul palco. Astraendo dalle parole è come si riuscisse a puntare in automatico a qualcosa che è riconoscibile, immediato, universale, popolare.
Cosa chiedi ai tuoi attori come regista?
In realtà il bello di lavorare con un gruppo di persone che si sono scelte è che non c’è tanto bisogno di chiedere. Essendo che ci siamo scelti siamo tutti molto disponibili. C’è molta libertà anche creativa, molta fiducia, molta generosità durante il lavoro. La cosa che sento preziosa per quello che riguarda questo gruppo è come se avessero mantenuto anche qui una sorta di istinto naïve, lo stesso che si può trovare quando si fa teatro con i bambini. A me capita spesso di insegnare e di insegnare ai bambini. Tu non fai in tempo a dare una consegna, a dire la situazione che vorresti veder rappresentata che i bambini vogliono mettersi subito a fare. Ecco, questo tipo di disponibilità, senza troppi fronzoli è fondamentale per chi lavora su drammaturgie originali. Dove l’attore non può sapere tutto dal principio e deve buttarsi anche su ciò che non sa. Io direi che questa disponibilità che loro hanno, che non gli viene richiesta, ma loro hanno, Fa in modo che noi possiamo lavorare su una creazione che sia veramente una creazione di scena.
Il più giovane di voi quanti anni ha?
Il più giovane degli attori ne ha trentadue. In realtà la più giovane è la scenografa che ne ha ventisette. Il più vecchio invece sono io che ne ho quaranta.
Teatro Franco Parenti – Milano
Visite
ideazione e regia Riccardo Pippa
di e con Cecilia Campani, Giovanni Longhin, Andrea Panigatti, Sandro Pivotti, Maria Vittoria Scarlattei, Matteo Vitanza
dramaturg Giulia Tollis
maschere e costumi Ilaria Ariemme
scenografia Anna Maddalena Cingi
disegno luci Paolo Casati
cura del suono Luca De Marinis
tecnico audio-luci Alice Colla
assistente alla regia Daniele Cavone Felicioni
organizzatrice Camilla Galloni
produzione Teatro Franco Parenti e Teatro dei Gordi
Spettacolo selezionato per NEXT 2018/2019 – Laboratorio delle idee per la produzione e la programmazione dello spettacolo dal vivo lombardo
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