
In questa epoca dove le immagini “gridano” e i volti sono ingombranti, la fotografia di Vivian Maier non avrebbe trovato posto. Non c'era nulla di spettacolare nei suoi scatti ma l'ordinario sapeva diventare straordinario. Il suo modo di osservare la realtà è sempre discreto, distante ma vicino. È immersa nel mondo che vuole rappresentare, adotta un linguaggio curioso, scruta quasi dal buco della porta. E così innova e restituisce spontaneità alla fotografia.

Il lavoro di questa fotografa, nata a New York nel 1926 da padre di cultura tedesca e madre francese, è rimasto nell'ombra fino al 2007, due anni prima della sua morte. Poi è letteralmente esploso e presentato in tutto il mondo. Dopo una prima mostra nel 2018, Bologna la ripropone con nuovi materiali in un'antologica con 111 fotografie in bianco e nero e una sezione di 35 immagini a colori, divise in sei sezioni, con la novità di un filmato in Super 8.
Ma è solo una parte di un archivio molto copioso, liberato dopo alcune vicissitudini legali: circa 2500 rullini, quasi 120 mila fotografie e 3000 filmini. Maier ferma l'obiettivo sui volti e i particolari della gente dimenticata ed emarginata di quelle periferie che facevano da contraltare all'America ricca e opulenta. Spesso, dopo una foto, si intratteneva a dialogare con i protagonisti dei suoi scatti e poi trascriveva questi colloqui sui negativi delle foto. Era parte di quel mondo: per undici anni, la Maier si è guadagnata da vivere facendo la bambinaia a New York, occupando una stanza buia in un seminterrato.
I ritratti di strada, una delle sezioni della mostra, sono il core dell'opera della Maier con un approccio ora ironico, ora complice con la povera gente e i lavoratori, impegnandosi in prima persona partecipando a manifestazioni per i diritti civili e alle marce delle donne, documentate negli scatti dagli anni '60 in poi.
«La Maier è testimone del suo tempo e lo fa cogliendo l'attimo, sempre con la giusta inquadratura, la giusta luce. Ferma quell'istante decisivo come lo definiva Henry Cartier Bresson, forse anche meglio» dice Anne Morin, curatrice dell'esposizione felsinea che vede nella Maier un riferimento per molti maestri che seguirono, come William Eggleston e Robert Doisneau.
Il vasto materiale fotografico abbraccia quasi 30 anni, dagli anni ‘50 con la prima Rolleiflex fino ai primi anni ‘80 e la colloca come esponente di un mondo, quello del fotoamatore, piuttosto avaro di riconoscimenti. Moltissimi gli autoritratti, ne scattò circa 500 all'anno, un caso senza precedenti. E lo faceva con u registro del tutto personale, usando finestre e superfici riflettenti per raffigurarsi. Oppure si metteva difronte ad una fonte di luce per proiettare la sua ombra su un muro o un prato. In queste immagini la vediamo spesso con i suoi cappelli di ottima fattura e le scarpe Balenciaga, uniche concessioni ad un'immagine di lei di grande semplicità.
Ma la foto di strada era un'altra delle sue abilità: si accaniva con leggerezza sul quotidiano, non aveva pretese di immortalare l'eccezionale ma solo piccoli gesti, sguardi o particolari dei quartieri più popolari di New York e Chicago degli anni '50 e '60.

Vivian Maier fotografava le diversità (nei vestiti, gesti e posture) e i contrasti con uno stile che occhieggiava alla fotografia umanista francese. Come nella foto con la ragazza e sua madre «tagliando una in vita, l'altra all'altezza delle spalle, le due figure diventano simboli di un rapporto unico, che rende la madre gigantesca e la piccola lillipuziana. E c'è il contrasto dei colori, il nero per la gonna ed i tacchi della mamma, il bianco quasi immacolato – ad eccezione delle scarpe necessariamente sporche – per l'abbigliamento della bambina».
A partire dal 1965, la Maier inizia a sperimentare la fotografia a colori, passando ad una Leica, con l'obiettivo all'altezza degli occhi, caratteristica che rafforzerà il contatto visivo con le persone che ritrae e usando anche con i colori un linguaggio di grande leggerezza e semplicità,
Vivian Maier fotografa fino al 1999 ma con ritmi via via molto ridotti, muore a 83 anni. Di lei dice Marvin Heiferman, studioso della fotografia: «Maier si dedicò alla fotografia anima e corpo, la praticò con disciplina e usò il suo linguaggio per dare struttura e senso alla propria vita conservando però gelosamente le immagini che realizzava senza parlare, condividerle o utilizzarle per comunicare con il prossimo».
Antonio Apruzzese
Palazzo Pallavicini, via San Felice 24, Bologna
VIVIAN MAIER – ANTHOLOGY
7 settembre 2023 – 28 gennaio 2024 (da giovedì a domenica 10-20)
Catalogo Skira editore
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