
Wanna Marchi, la regina delle televendite, è stata la protagonista indiscussa di una stagione che ha visto il proliferare, negli anni 70 e 80, di una miriade di folcloristici personaggi impegnati, attraverso lo schermo televisivo trasformato in una sorta di mercato rionale, a venderci di tutto, dalle pentole ai gioielli, dai materassi alle pellicce, dai cosmetici ai tappeti.
E oggi è oggetto della docuserie Wanna, in onda sulla piattaforma Netflix in 4 puntate di 45 minuti ciascuna, un pregevole prodotto scritto da Alessandro Garramone e Davide Bandiera e diretto, con mano sicura e con un montaggio serrato e adrenalinico, da Nicola Prosatore, costato oltre due anni di lavoro tra indagini, interviste e ricerche documentali e di materiale di archivio.
La storia è nota: figlia di contadini, priva di istruzione (possiede la sola licenza di quinta elementare), Wanna Marchi inizia come estetista e truccatrice e, grazie alla sua presenza nelle televisioni locali, si rivela ben presto una delle venditrici televisive di maggior successo.
Si scopre un’innata vocazione imprenditoriale e inventa un approccio aggressivo, quasi violento, crudelmente sincero, con il quale si rivolge alle casalinghe italiane e le convince ad acquistare intrugli, dalle alghe agli scioglipancia (messi in vendita prima ancora di averli prodotti) dal miracoloso potere dimagrante.
La Marchi, insieme alla figlia Stefania Nobile che ne riproduce stile e movenze, diventa in poco tempo un vero e proprio fenomeno di costume e viene ospitata e intervistata in tutte le più importanti trasmissioni della RAI e delle TV locali.
Nonostante il successo e i guadagni stratosferici, forse anche a causa di una gestione affidata a una collaboratrice dall’oscuro passato contiguo alla camorra, nel 1980 Wanna Marchi viene arrestata e quindi condannata a quasi due anni di reclusione per concorso in bancarotta fraudolenta in seguito al fallimento della Società a lei intestata.
Ma le Marchi, madre e figlia, non si arrendono e risorgono dalle proprie ceneri.
Grazie all’interessamento di un misterioso personaggio, tale Attilio Capra, sedicente marchese, imprenditore e intrallazzatore, con agganci politici e piduisti, tornano di nuovo alle televendite e al successo. In pieno delirio di onnipotenza decidono di fondare una nuova società insieme a Mario Pacheco do Nascimiento, presunto mago o “Maestro di vita” (in realtà ex cameriere del Capra), e iniziano a commercializzare numeri fortunati che garantiscono vincite al lotto per finire con la vendita di amuleti vari e perfino di comune sale da cucina in grado, dopo averlo sciolto in acqua, di togliere il malocchio grazie all’intercessione del Maestro.
Una volta agganciati i clienti creduloni, le Marchi e le telefoniste da loro istruite riescono a ottenere, minacciando le peggiori sciagure in caso di mancato pagamento e quindi di mancata sconfitta del malocchio, cifre sempre più elevate, fino a portare alla completa rovina finanziaria molti degli interlocutori.
La truffa, smascherata quasi per caso grazie a un servizio di Striscia la notizia, il telegiornale satirico in onda ogni sera su Canale 5, porterà a un’approfondita indagine da parte della Guardia di Finanza, quindi all’arresto delle Marchi (il mago do Nascimiento è nel frattempo fuggito in Brasile facendo perdere le sue tracce), a un lungo processo (seguito da milioni di telespettatori grazie alle riprese effettuate da RAI 3 per la trasmissione Un giorno in pretura) e alla condanna a oltre 9 anni di carcere.
Le vicende sopra riassunte sono narrate, nella docuserie di Prosatore, dal giornalista investigativo Stefano Zurlo. Il suo racconto è inframmezzato da filmati d’epoca e da numerose interviste, da quelle ai televenditori “colleghi” della Marchi che ne hanno toccato con mano l’incredibile e irresistibile ascesa, a quelle a collaboratori e giornalisti e alla stessa Wanna Marchi e alla figlia Stefania Nobile le quali, contattate appositamente per la realizzazione del documentario, si sono rese ben disponibili a rilasciare una serie di dichiarazioni che mettono in luce il loro carattere e la loro, sotto molti aspetti inquietante, personalità.
Gli interventi delle due televenditrici sono sconcertanti. Madre e figlia non mostrano mai un minimo segno di pentimento o rimorso e appaiono tuttora convinte di non aver commesso alcuna azione penalmente perseguibile né, tanto meno, moralmente censurabile. Entrambe ritengono di essere state vittime innocenti di una sorta di congiura dettata dall’invidia nei loro confronti e dal mancato riconoscimento della loro superiorità e della loro genialità imprenditoriale.
Mostrano in ogni momento una fastidiosa strafottenza, un’inqualificabile arroganza, un’assoluta indifferenza nei confronti delle sofferenze provocate a migliaia di persone, un totale disprezzo per coloro che con le loro indagini e testimonianze ne hanno determinato la caduta da un piedistallo sul quale si erano issate, a loro parere del tutto giustamente, solo grazie alle loro capacità e abilità.
Wanna Marchi non mostra alcuna incertezza in merito alla legittimità delle sue azioni e anzi la proclama con l’agghiacciante affermazione che “i cogli*ni vanno incul*ti”.
Nonostante la docuserie di Prosatore si sforzi di restare neutra e di tenersi equamente lontana da toni apertamente accusatori così come da atteggiamenti anche solo in parte assolutori, lasciandoci quindi del tutto liberi di elaborare la nostra personale opinione sulla vicenda, penso proprio che non possano e non debbano sussistere dubbi sull’assoluta amoralità del comportamento delle Marchi e sulla loro qualifica di truffatrici, come certificata dai giudici e dalla conseguente condanna.
Così come non si può non provare pena, comprensione, solidarietà nei confronti delle migliaia di persone alle quali le Marchi, con i loro raggiri, con le loro false promesse e con minacce più o meno velate, hanno sottratto soldi fino a ridurne molte letteralmente sul lastrico.
Tuttavia non possiamo non notare come, a fronte di oltre 300.000 persone i cui nomi e indirizzi sono stati riscontrati negli archivi della Società delle Marchi, solo 132 abbiano sporto formale denuncia e solo 62 si siano costituite parte civile al processo.
Quasi come se gli stessi truffati faticassero a riconoscersi in tale veste e ripiegassero invece su una più assolutoria definizione di semplici ingenui e creduloni. E non possiamo dimenticare che la prima telefonata, necessaria alle Marchi per agganciare quelle che diventeranno le future vittime del raggiro e della truffa, viene fatta per richiedere numeri fortunati che possano assicurare una cospicua vincita in denaro. Quindi un tentativo, velleitario e a suo modo amorale, prima ancora che ingenuo, di arricchirsi senza fatica e senza merito.
Tentativo legittimato da una società che dipinge denaro e ricchezza come unico traguardo da raggiungere per realizzarsi, a qualunque costo.
La docuserie Wanna ha il merito di mostrarci, sullo sfondo della vicenda delle due diaboliche imbonitrici, il ritratto di un paese e di una società che ha fatto della spregiudicatezza e dell’avidità una regola di vita e che, attraverso le televisioni e i suoi programmi sempre più falsi e destabilizzanti, ci ha dipinto una realtà fittizia, farcita di finto perbenismo e di disvalori, sempre pronta a creare nuovi idoli e a distruggerli con cinismo e noncuranza.
Un paese e una società che abbiamo dimenticato o rimosso e che crediamo di aver profondamente modificato e migliorato.
Ma non è difficile constatare come i presunti miglioramenti siano solo di facciata: abbiamo cambiato nomi, strumenti e modalità ma l’incultura e i disvalori di cui le Marchi sono state portatrici sono purtroppo ancora ben presenti nell’odierna realtà e ne costituiscono tuttora e troppo spesso i fondamenti.
GianLuigi Bozzi
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